“Sono ribelle per indole e ho cantato il diritto a essere se stessi fino in fondo”, confida. “Ho sofferto per la carriera, i figli mancati e un tumore. Ma ho avuto vicino un uomo speciale”. di Roberta Spadotto

Una vita rock. Perché essere rock, oltre che cantarlo, significa una sola cosa: essere se stessi fino in fondo. E Donatella Rettore ha perseguito questo obiettivo per tutta la sua esistenza, a volte facendo scandalo, altre superando muri e ostacoli, e spesso dovendo venire a patti con la vita. Oggi, arrivata a 67 anni e a quaranta tondi di carriera, la cantautrice veneta si è fatta un regalo pubblicando l’autobiografia “Dadauffa. Memorie agitate (Rizzoli, 224 pagine, 18 euro). «Dadauffa sono io», dice Rettore a Gente. «Dada non è solo un diminutivo di Donatella, è anche il nome di un movimento artistico di rottura. lo ho fatto un “dadarock”, un rock leggero, ma in qualche modo alcuni schemi li ho rotti anche io. “Uffa” perché di base sono un’impaziente. Ma nella vita mi sono dovuta conquistare tutto».


Sei nata nella provincia veneta a metà negli anni Cinquanta: che infanzia hai avuto?
«Sono stata una bambina felice ma i miei genitori, Sergio e Teresita, avevano perso tre figli, una femmina e due maschi: due durante il parto, un altro a un giorno di vita. Ero la sopravvissuta e ho sentito la responsabilità di rispondere alle aspettative di due persone che avrebbero voluto una famiglia numerosa. Mia madre poi, che in casa chiamavamo Napoleone, era un vero generale e voleva che fossi la prima laureata della famiglia. Quando ero alle elementari non c’era giorno che mi chiedesse: “Pensiamo a quale facoltà sceglierai?”. Ma io volevo cantare e a lei non è mai andato giù. Una volta fuggii per andare a un concerto dei Rolling Stones. Per punizione mi chiusero in collegio per un anno, fu molto faticoso».

Da qui deriva la tua anima ribelle?
«Volevo sciogliere le catene. Da ragazzina ho spaccato tutti i vetri di casa dalla rabbia.Ma credo fosse la mia indole. Al la fine ho fatto ciò per cui ero nata».

Gli esordi non furono facili.
«Scrivevo le mie canzoni e le spedivo alle case discografiche, ma non era come adesso che è tutto tracciato su Internet. Non c’erano i cellulari. Stavo settimane a fissare il telefono in attesa di una risposta. Inoltre il mondo della musica non è rose e fiori: è pieno di persone che sono pronte a colpirti sulle tue debolezze».

Però hai avuto un mentore davvero speciale: Lucio Dalla.
«Dalla mi permise di aprire i suoi concerti. Era proprio lui che mi diceva: “Credi in te stessa e stai attenta”. Erano tempi, parlo degli anni Settanta, in cui una donna che scriveva canzoni non sapevano dove collocarla. Mi chiamarono “De Gregori in gonnella” e successivamente “Renato Zero al femminile”, a causa dei miei travestimenti. Per definirmi dovevano per forza passare da un uomo».

Non eri ben vista nemmeno dalle femministe, però.
«Condividevamo le stesse lotte ma non fui capita. Una volta cantai a una loro manifestazione e venni fischiata. L’organizzatrice mi avvicinò e mi disse: “Sei troppo bionda, troppo appariscente”. Come se per difendere un diritto all’esistenza una donna dovesse per forza mostrarsi dimessa e con i capelli unti».

Per questo scrivesti Splendido splendente?
«È un inno all’accettazione di sé. In qualche modo precorrevo i tempi perché c’è un verso che parla dell’appartenenza di genere non binaria: “Come sono si vedrà. Uomo o donna senza età”».

Anche Kobra fece scalpore.
«Una canzone nata per caso. Un collega musicista lucano un giorno si mise a scherzare sul fatto che gli uomini del sud fossero superdotati. E così nacquero spontanei i versi: “Il kobra non è un serpente, ma un pensiero frequente”. Era il 1980, nessuno aveva mai pensato che anche le donne pensassero al sesso. Per un periodo fu ritirata dalle vendite».

Hai scritto moltissimi dei tuoi testi con tuo marito, Claudio Rego, con cui da 45 anni vivi un forte sodalizio musicale e umano.
«Il primo incontro con lui. nel 1974, fu odio a prima vista, litigammo. Poi lo rividi due anni dopo in un altro contesto e nel giro di due mesi vivevamo insieme. Sono pochi i momenti della vita in cui Claudio non mi è stato vicino e quasi tutti sono riferiti a quando ancora non ci conoscevamo».

Racconti, però, di averlo lasciato per un altro.
«Era il 1983 , un periodo di sofferenza per la mia carriera. Mi innamorai follemente del conte Umberto Marzotto e scappai con lui. Un giorno tornai nella nostra bellissima casa di Roma a prendere dei vestiti e Claudio mi disse: “Se te ne sei andata sarà stata anche colpa mia. Dimmi cosa posso fare?”. Quale uomo può dire una cosa simile dopo essere stato mollato? Tornai da lui. E non è che non si litighi o che non ci siano tentazioni: siamo sempre andati avanti giorno per giorno, concedendoci molti spazi reciproci».

Non avete avuto figli: hai dei rimpianti?
«Non più. Non è che non ci abbiamo provato. Ho tentato con la fecondazione assistita, con le punture di ormoni. Nulla. E la via dell’adozione era troppo complessa dal punto di vista burocratico. Ma ho un sacco di “figli” cui sono vicina e do consigli: sono i fan che mi scrivono».


Nel libro dici che potresti lasciare il mondo della musica: è così?
«Dopo la partecipazione all’ultimo Festival di Sanremo con Ditonellapiaga, la nostra canzone Chimica ha vinto il disco di platino; sono stata in cima alla classifiche estive con Faccio da me, in coppia con Tancredi. Insomma, sono ancora in vetta: sarebbe il momento giusto per lasciare».

Due anni fa, proprio mentre iniziava la pandemia, scopristi di avere un tumore.
«Si, al seno. Uno choc. La prima cosa che ho pensato è stata che non avrei potuto lasciare Claudio e i nostri amati cani, che per me sono come angeli. Per fortuna è stato preso in tempo, ma sono cambiata, dentro e fuori».

Roberta Spadotto© riproduzione vietata )

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